«Ci eravamo proposti di presentare uno tra i personaggi più vivi
e umanamente positivi nel capo della vita culturale italiana,
quello di Germana Marucelli, la nota creatrice di alta moda, quando,
recentemente, in occasione dell’apertura del suo nuovo atelier a Milano
– atelier, ovviamente, allestito e arredato da artisti – era uscito
un prezioso volumetto per la EAST 128 (Milano), dal titolo:
“Le favole del ferro da stiro”. Ricordi di Germana Marucelli
scritti da Nanda Pivano».
Lara Vinca Masini

Nel 1964 Germana Marucelli, sentendo l’esigenza di rinnovare i propri spazi, abbandona la sede storica di corso Venezia 18 per trasferirsi di fronte, al numero civico 35, e affida la progettazione dei nuovi spazi all’artista Paolo Scheggi.
Durante l’inaugurazione del nuovo atelier, il 7 ottobre 1964, viene presentato al pubblico il volume di Fernanda Pivano Le favole del ferro da stiro, la prima monografia dedicata all’amica e grande creatrice di moda Germana Marucelli. Il libro, sospeso tra la familiarità della fiaba e la liricità del mito, narra la vicenda umana e artistica della sarta intellettuale. La stampa di settore segue l’evento con interesse e curiosità:

«L’abbiamo ripetuto tante volte: Germana Marucelli precorre i tempi (…). L’ultima impresa di questa donna coraggiosa è la nuova sede del suo atelier, inaugurata pochi giorni fa con un cocktail per gli amici e le clienti. Una bella, moderna sede, bianca, luminosa (…). Fra le coppe di champagne e gli applausi degli invitati, un po’ commossa e giustamente soddisfatta, Germana ha distribuito agli “intimi” un libretto intitolato: “Le favole del ferro da stiro”. È la storia avventurosa della sua vita, raccontata da Fernanda Pivano».
“Il giorno”, ottobre 1964

La vecchia sartoria di Marucelli, ex-Casa Ventura, si omologava ai saloni di moda del tempo legati ancora al cliché francese, «tutto ori e specchi». Paolo Scheggi, invece, realizza per lei un ambiente completamente innovativo e considerato dalla critica d’arte Lara Vinca Masini «uno dei suoi primi elementi vivibili di integrazione plastica all’architettura». I colori prevalenti del nuovo atelier sono il bianco delle pareti, il grigio della moquette, il nero dei mobili laccati e l’alluminio delle lampade (di Alviani/Scheggi). Le uniche punte di colore concesse sono di alcune opere di Scheggi, il blu cobalto dell’Intersuperficie curva-azzurro, incassata nella parete, e il rosso vermiglio del Compositore spaziale, collocato all’ingresso, propulsori di energia vitale che si propaga vibrante per l’intera stanza. Il flusso luminoso, generato dalle lampade in alluminio poste a terra, segna inoltre l’ambiente come una lama di luce. Ogni attrito, ogni intromissione tra indumento ed essere umano viene estromesso e la luce, unica vera struttura del luogo, ne consacra l’incontro.

Le uniche variazioni spaziali previste e necessarie per la fruizione del luogo sono i paraventi laccati e le porte scorrevoli in acciaio. Moduli intercomponibili, dunque, con i quali trasformare lo spazio e renderlo agevole anche per gli innovativi défilé. Le modelle, infatti, non sfilano più tra il pubblico, ma è il fruitore a seguirle nel loro alternarsi sulla pedana cubica, invertendo così le logiche del tempo. Sagomate dalla luce, inoltre, esse paiono come sculture viventi, da ammirare. Una novità assoluta per l’epoca e la stampa di settore ne rimarca l’eccezionalità.

«Ma la cosa più riuscita e più geniale è la pedana per l’esposizione: in fondo, al centro del salone, c’è un enorme dado nero illuminato dal dietro con riflettori cinematografici. A una a una, le mannequin salgono sulla pedana e il modello prende un rilievo e una importanza grandissimi: piccole statuine che si ammirano anche nei minimi particolari».
“Il giorno”, ottobre 1964